“Chi prega si salva”, la sua sintesi di vita. Don Giacomo Tantardini a cinque anni dalla morte. 19 aprile

di GRAZIANO DEBELLINI

 

 

Il 19 aprile di cinque anni fa moriva don Giacomo Tantardini, sacerdote ambrosiano esemplare: non mancò un giorno di dire messa, né di recitare il breviario.

 

L’ultima volta che ci siamo incontrati fu a Roma. La malattia ormai avanzata sembrava prossima a compiere il suo destino terreno, come mi accennò in confidenza. E però, aggiunse: «Sai, non faccio fatica ad abbandonarmi nelle mani del Signore».

Lo ricordo non tanto e non solo come un dialogo che rimandava a quei doni di grazia di cui don Giacomo è stato evidente destinatario, quanto come esemplare sintesi del suo essere cristiano. Di quell’umiltà bambina, che era poi la prospettiva cristiana che per tutta la vita aveva indicato ai suoi e alla Chiesa.

Una prospettiva che si riassumeva tutta nell’affidarsi nelle mani del Signore, nel rimanere sospesi alla sua grazia. Prospettiva in fondo banale, semplicemente evangelica (“senza di me non potete far nulla”, dice il Signore nel vangelo), e però così disattesa dai cristiani. Perché questo stare sospesi alla grazia del Signore, ai gesti che Egli pone nel mondo e nella vita personale, seppur così facile, è praticamente impossibile senza un dono della grazia divina. Perché senza questo dono l’uomo inevitabilmente tende a immaginare e a fare lui, piuttosto che attendere dal Signore. Allora il cristianesimo diventa un attivismo e la dottrina cristiana una ideologia.

Nulla di più lontano dalla semplicità di questa attesa, che vive e si conserva nella preghiera. Quella preghiera che, come dice sant’Agostino – con una frase tanto cara a don Giacomo – rappresenta “. totum atque summum negotium / l’attività totalizzante e somma della vita cristiana”.

È tanto semplice la vita cristiana che essa si compendia in quattro parole: “Chi prega si salva”. Questa frase di sant’Alfonso Maria de’ Liguori fu tanto preziosa agli occhi di don Giacomo che volle usarla come titolo di un piccolo libro di preghiere che trovò l’autorevole avallo del cardinale Josef Ratzinger, allora Prefetto della Congregazione della Fede, il quale volle redigerne l’introduzione.

In quel titolo, che riprende la nota frase del santo campano, c’è la sintesi del cristianesimo che ha caratterizzato la vita di don Giacomo. Dove la salvezza indicata in quella frase non riguarda solo la prospettiva ultima del Paradiso, ma inizia qui, sulla terra, in una vita che è abbracciata dalla misericordia di Dio. Quella misericordia di cui è indizio ancora una volta il titolo del piccolo volume. La frase di sant’Alfonso, infatti, proseguiva così: “chi non prega si danna”. Don Giacomo decise evidentemente di eludere la seconda parte della citazione del santo, perché l’accento cadesse sulla misericordia di Dio piuttosto che su altro. E sul mistero infinito sotteso a tale misericordia, che abbraccia tutti gli uomini, credenti e non credenti.

Proprio la necessità di mostrare al mondo la misericordia di Dio piuttosto che altro credo sia il tratto essenziale che lega don Giacomo a Francesco, del quale peraltro era amico, seppur ambedue allora relegati nelle periferie della Chiesa: l’uno alla fine del mondo, l’altro nella periferia romana. Capita che dalla periferia certe cose si vedano meglio.

A don Giacomo è capitato, tanto che da quella periferia in cui era stato relegato, era diventato punto di riferimento di tanti, nella Chiesa e nel mondo, anche grazie a “30giorni”, rivista che allora aveva un riscontro non indifferente in ambito ecclesiale, e che aveva nel sacerdote romano l’anima e il cuore. Una rivista nella quale si andarono a condensare prospettive per la Chiesa, che ritengo siano ancora di conforto e di certa attualità.